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Le api di Mandeville: la favola che gli economisti amano (o odiano)

api

Lo shopping è tante cose. E’, anche, un’importante leva economica. Esso è infatti pienamente inserito nelle complesse dinamiche della domanda e dell’offerta che influenzano l’andamento economico delle società in cui oggi tutti viviamo.
Approcciare a questi temi può essere un po’ ostico; la scienza economica può infatti risultare difficile e arida per chi, come noi, non è abituato ad occuparsene.

I testi che per primi hanno contribuito a fondare e a far muovere i primi passi all’economia politica potrebbero però stupire i nostri lettori. Si tratta infatti spesso di testi assolutamente alla portata del lettore non specialistico e talvolta di opere più vicine alla letteratura di quanto si possa immaginare confrontandosi con i trattati economici attuali.

Abbiamo perciò pensato che potesse essere utile consigliare un agile poemetto, La favola delle api, scritto nel 1705 dal medico e filosofo olandese Bernard de Mendelville. E’ un’opera che insiste su tematiche economiche in modo molto curioso ed originale, riuscendo a cogliere lo spirito dell’Europa del XVIII secolo e a criticarlo sottilmente.

Il testo, inizialmente concepito come un pamphlet satirico, mette in evidenza le ipocrisie di una società iniqua, caratterizzata dal crescente sviluppo dell’industria, in cui le virtù sono mendaci e in cui i vizi vengono nascosti da tutti.

La prima versione in realtà era intitolata L’alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti e venne inizialmente non compresa dal pubblico, che la interpretò come una satira della virtù. Nelle successive riedizioni l’autore specificò in una prefazione il concetto portante del testo e mutò il titolo in quello attuale.

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La satira di Mendelville mette in luce la grettezza dei componenti di quella che appare come una società esemplare, laboriosa ed ordinata. La storia vuole evidenziare come nella nascente società industriale sia impossibile godersi la vita mantenendo intatte le virtù e la morale. Allo stesso modo, però, vuole denunciare l’ipocrisia di coloro che protestano e predicano contro i vizi.

La società delle api che viene descritta nella favola è infatti usata per sostenere anche una tesi che fece scalpore e divenne celebre: il tentativo di soddisfare i propri vizi personali da parte di una minoranza privilegiata è un motore economico fondamentale per la società stessa perché stimola l’aumento dei consumi e fa crescere la domanda di lavoro delle classi meno agiate.

Il testo originale è molto chiaro su questo punto.

Essendo così ogni ceto pieno di vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità, era adulata in pace, temuta in guerra. Stimata presso gli stranieri, essa aveva in mano l’equilibrio di tutti gli altri alveari. Tutti i suoi membri a gara prodigavano le loro vite e i loro beni per la sua conservazione. Tale era lo stato fiorente di questo popolo. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica.

La curiosa visione dell’autore ipotizza però un drastico cambiamento nell’alveare: ad un certo momento, la giustizia e l’onestà iniziano a pervadere tutti i suoi abitanti. La conseguenza è che improvvisamente una grossa parte delle api rimane senza lavoro, perché tutti coloro che prosperavano sulla disonestà e sull’inganno smettono di agire.

Inoltre, la semplicità dello stile di vita che conseguì fece sì che ogni cosa che va oltre la sopravvivenza viene abbandonata; l’arte scompare e le mode legate al lusso vengono meno, perché ogni spesa superflua è considerata inutile. D’altro canto, il prezzo delle derrate alimentari si alza e questo spinge molte api ad abbandonare l’alveare.

La visione della favola è quindi anche una riproposizione delle leggi di mercato che dominavano il nascente pensiero economico, fortemente incentrato sulla stretta connessione di domanda ed offerta.

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